Nel necrologio di mia madre va da sé che possa capitarci chiunque.
Stamattina, però, all’ennesimo racconto – fatto sempre un po’ per condividere e un po’ per esorcizzare – e a quelle parole di malinconia e paranoia, si è aggiunto un altro sentimento, alquanto inedito.

Manifesto funebre, agosto 2017.

Mi ha raccontato di una coppia di anziani che si è spenta stanotte. Lui stava più male di lei, ma se n’è andata prima la moglie, e poi il marito, a distanza di tre ore.

Tre ore, – ho pensato – giusto il tempo per quella donna di capire dov’era, e intuire che in qualunque posto fosse, quello sarebbe stato certamente migliore del letto in cui era ormai riposto da tempo il suo compagno.
E sempre tre ore per capire che da sola non riusciva proprio ad andarsene. 

Così, due bare, due vestiti eleganti confezionati da tempo, due paia di scarpe dalle suole nuovissime che non avranno mai toccato terra, un rosario a testa tra le mani, e un bagaglio a corredo – il più leggero di sempre – in un piccolo fagotto con gli effetti personali immancabili e i vestiti dell’attimo prima del trapasso, da riporre ai lati del corpo o sui piedi, un po’ per rito e un po’ per tradizione, prima di chiudere con questa vita, siggillando tutto.

Infine, un unico funerale, un’unica benedizione, un unico corteo dalla chiesa al cimitero, gli stessi parenti, gli stessi fiori, le condoglianze per tutti e due, nella medesima stretta di mano, e gli amici rimasti di lui che si fondono per un’ultima volta a quelli di lei, in una rarissima occasione, avvenuta stavolta senza alcun invito. 

Un’ultima volta che disintegra l’eco di quella frase pronunciata tanti anni prima dal prete che li aveva sposati.
Un’ultima volta che insieme a mia madre ho considerato coincidenza, o più propriamente sincronizzazione, e che fa percepire ad ognuno quel sapore di rivalsa nei confronti di un’idea consolidata.
Ovvero che si muore inesorabilmente soli, a questo mondo.

Un’ultima volta che fa in tre ore, di due vite, un capolavoro.

Agosto, 2017.


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