Parli di Damien Hirst, e la reazione è da schieramento quasi ideologico.

O con lui, in maniera assoluta, o contro di lui, categoricamente. E alla Fondazione Francois Pinault, a Venezia, la sensazione è che siamo ancora una volta davanti alla richiesta di elaborazione di un senso di appartenenza che si manifesta nel consenso dei visitatori: favorevoli e sconcertati da questo progetto, oppure contrari e rigettanti nei confronti di un’operazione dalla portata indubbiamente colossale.

“Treasures from the WRECK of the Unbelievable. Damien Hirst” – fino al 12 dicembre – è l’ultima mostra dell’artiStar internazionale e si disloca in ognuno dei due spazi della Fondazione Pinault, tra Palazzo Grassi sul Canal Grande e Punta della Dogana nel bacino di San Marco e, anche se sembra che la visita sia pensata con una priorità per il complesso doganale, indipendentemente dallo spazio espositivo che si voglia visitare per primo, la percezione istantanea è di essere davanti ad un singolarissimo ed improbabile inventario.

La mostra racconta del ritrovamento della nave Apistos, naufragata nei pressi degli antichi porti commerciali dell’Anzania (al largo della costa orientale dell’Africa) e appartenuta a Cif Amotan II, un liberto di Antiochia vissuto tra il I e il II secolo d. C..
La storia riporta che la sontuosa collezione di oggetti provenienti da ogni parte del mondo antico, e contenente i cento tesori di Amotan, era stata caricata sulla nave per essere trasferita in un tempio appositamente dedicato. Ma la Apistos naufragò, sprofondando nella leggenda e affidandone al mare una insolita conservazione.

Dopo duemila anni di giacimento e dieci di recupero, la raccolta restituisce le sculture senza alcun intervento di restauro e coperte da significative bio-incrostazioni calcaree anche molto invasive, ed espone copie moderne delle opere che ne raccontano le fattezze originarie. Inoltre, essa si correda di una documentazione accurata che ne testimonia il recupero, ed è integrata di una sezione di disegni e una riproduzione in scala dell’imponente imbarcazione.

Nel complesso, quello che emerge è una mostra documentativa di matrice archeologica e museologica, dove le stratificazioni millenarie fanno parte della storicizzazione delle opere, la cui riconoscibilità non preclude le connessioni col mondo antico e ne consente anche delle delucidazioni e nuove connessioni. Ne è un esempio la testa di bronzo attribuita a Pazuzu – re babilonese dei demoni del vento – e ritrovata in una campagna di scavo del 1932 nella valle del Tigri, che viene esposta per chiarire, invece, la sua più probabile appartenenza alla figura di un piccolo bronzo ritrovato nel relitto, e di cui in mostra è esposta anche una copia monumentale di circa 18 metri (proporzionata al bronzo).


E poi, scheletri di ciclopi e unicorni, nudi greci, divinità indiane come Hydra e Kali, la scultura di un Buddha, un calendario azteco, e ancora dèi, sfingi, leoni, serpenti, ermafroditi, uomini lucertola, scimmie, esempi di metamorfosi e studi anatomici, teche contenenti gioielli, tracce di armature, minerali, e svariati oggetti provenienti da civiltà greche, maya, minoica, romana, per citarne alcune. Una enorme e scenografica catalogazione che gioca con canoni estetici di varie epoche e un’iconografia che ad un certo punto ci fa distinguere, tra le altre, le sagome di Pippo e Topolino ricoperte di agglomerati corallini. Per non parlare dei lineamenti di Katie Keight (fotomodella e compagna dell’artista) che sostituiscono quelli della dea mesopotamica Ishtar, il volto di Pharrel Williams che per via del nemes egizio prende le sembianze di un faraone sconosciuto, e lo stesso Hirst che impersona un bacco ebbro e circondato dai satiri. (Metafora, questa, del godimento dell’autore nell’autocelebrarsi?)

Quello che emerge dall’insieme è che Hirst, attraverso immagini incongruenti e materiali preziosissimi, sembra voglia creare la sensazione di essere ai confini di un insolito immaginario che valica le dinamiche del contemporaneo per attingere al mondo antico, ma anche a quello del fantastico.

Una finzione anacronistica che riporta alla mente le camere delle meraviglie del XVI secolo, e una storia ben più antica che, anche se totalmente inventata, riaffiora costantemente come vera, per via di quel desiderio innato di ogni essere umano, di credere e far credere, oltre che per un allestimento museografico coinvolgente, fatto con una falsa documentazione che ricorda i trucchi del mockumentary cinematografico.
Difatti, qui gli eventi fittizi e di fantasia vengono presentati come reali attraverso l’artificio del linguaggio documentaristico, con riferimenti al Centro Archeologia Marittima dell’Università di Southampton, collegamenti storici (la foto di una mostra surrealista nella quale sarebbero apparsi i cinque busti di donna ritrovati molti anni dopo nel relitto), grandi lightbox a corredo delle opere, una piccola guida che descrive alcuni pezzi e video nei quali si proiettano le immagini dei presunti ritrovamenti.

Hirst, insomma, costruisce il coinvolgimento dell’osservatore con un’evidente intensità drammatica, e allo stesso tempo fa riflettere sul labile rapporto tra finzione, verità e post-verità della comunicazione contemporanea, giocando sarcasticamente sull’influenza emotiva che può avere una fonte autorevole (il Museo), nonostante l’intera collezione si destreggi ripetutamente tra un’allusione di tipo citazionistico e un’estetica di natura attuale, oltre che contemporanea.
Un’azione colossale, dal grande fascino, e alquanto megalomane, che nel busto del collezionista si rispecchia finitamente, visto che Hirst sceglie di attribuire alla sua stessa fisionomia l’identità dello schiavo liberto, in una trasposizione autocelebrativa della sua ascesa al mondo dell’arte.

Altre riflessioni:

  • La domanda alla quale probabilmente non avremo mai risposta è: quante persone, uscendo dalla Laguna, crederanno che l’artista abbia davvero finanziato il ritrovamento del relitto di uno schiavo liberto del II sec. d. C.? Secondo alcuni operatori museali, molte persone sono così appannate dalla storia che non hanno riconosciuto lo stesso artista che tiene per mano Topolino.
  • Sarebbe bello credere che dietro all’identità di Banksy si celi davvero Damien Hirst. Se così fosse, le citazioni al writer britannico potrebbero essere disseminate in maniera più o meno velata tra le opere. Personalmente, mi piace crederlo e qui ci sono un paio di indizi (uno evidente, l’altro un po’ meno dato che si tratta di un’incisione/tattoo che ricorda la Madonna con la pistola in via dei Tribunali, a Napoli).

Una curiosità:
Ad oggi, sembra che il 70% dei lavori in mostra sia già stato acquistato dai collezionisti, e questo riposiziona chiaramente Damien Hirst ai vertici dello Starsystem dell’arte contemporanea.

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